L'USO COMUNE DELLA PAROLACCIA PUÒ INTEGRARE REATO DI INGIURIA


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE

Sentenza 2 luglio - 3 agosto 2010, n. 30956


Fatto e diritto

Propone ricorso per cassazione Catone Angelo avverso la sentenza del Tribunale di Civitavecchia in data 18 marzo 2009 con la quale è stata confermata quella di primo grado affermativa della sua responsabilità in ordine al reato di ingiuria consumato il 15 febbraio 2002, per avere rivolto ad Aronica Giancarlo l’espressione “vaffanculo”.

Deduce

1) che la giurisprudenza della Cassazione (v. sez. V, sent. n. 270 del 2006) ha già evidenziato che l’espressione giudicata ingiuriosa nel processo de quo è diventata di uso comune col significato di non infastidirmi, con la conseguenza che ha perso efficacia offensiva mantenendo solo il senso di una espressione maleducata;

2-3) la mancata assunzione della completa deposizione di un teste ammesso dal Giudice di pace ma da questi interrogato solo parzialmente, avendo tale giudice impedito domande sui fatti che avevano preceduto l’alterco e che erano costituiti dalla contestazione - da parte dell’imputato - della regolare esecuzione di lavori appaltati all’Aronica: e ciò nella ottica della dimostrazione, anche attraverso testi indotti dalla difesa dell’imputato, della causa di non punibilità della provocazione.

Il ricorso è inammissibile.

Occorre ricordare preliminarmente che il motivo di ricorso è ammissibile a norma dell’art. 581 c.p.p. quando contiene la indicazione specifica non solo degli argomenti in diritto ma anche degli elementi di fatto che sostengono la censura formulata.

Nella specie tale onere non è stato assolto.

La difesa ha chiesto in primo luogo il riconoscimento del fatto che la espressione“”vaffanculo” sarebbe divenuta di uso comunque e avrebbe quindi perso, a prescindere dalla occasione e dal contesto in cui viene pronunciata, ogni valenza offensiva.

Il precedente giurisprudenziale che in tal senso si sarebbe espresso, citato dallo stesso giudice della sentenza impugnata, è dato dalla sentenza della Sez. V, n. 27966 del 13 luglio 2007.

Nella relativa motivazione, tuttavia, pur affermandosi che la espressione in parola è venuta perdendo la accezione offensiva per divenire solo sintomo di impoverimento del linguaggio e di maleducazione, si osserva anche che una simile conclusione non può trarsi in qualsiasi occasione.

È vero invece che“quanto sinora esposto è senza dubbio condizionato dal contesto in cui si inseriscono le espressioni citate: è evidente che se queste vengono pronunciate dall’interessato nei confronti di un’insegnante che fa un’osservazione o di un vigile che dà una multa, esse assumono carattere di spregio; diversa è la situazione se esse si collocano nel discorso che si svolge tra soggetti in posizione di parità ed in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto.

Proprio dando applicazione a tale puntualizzazione, altre pronunzie di questa Corte hanno concluso per la sussistenza del reato in relazione alla menzionata espressione.

Così Sez. 5, Sentenza n. 3931 del 29/10/2009, Rv. 245925, in una fattispecie relativa a locuzioni, riconosciute come ingiuriose, pronunciate nel contesto nella vita di relazione quotidiana tra vicini di casa, ha posto in risalto che, in tema di tutela penale dell’onore, l’accertamento del carattere ingiurioso delle parole o delle frasi profferite implica la valutazione del contesto nel quale sono state pronunciate. E, precedentemente, Sez. 5, Sentenza n. 11632 del 14/02/2008, Rv. 239479 era giunta ad analoghe conclusioni sottolineando che“l’apprezzamento in concreto della reale portata offensiva di una o più espressioni (verbali/grafiche, gestuali ecc.) compete al giudice del merito, ma è certo che esistono espressioni che oggettivamente (e dunque per l’intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) sono da considerarsi offensive in qualsiasi contesto, tranne che siano, riconoscibilmente, utilizzate ioci causa. È dunque senza dubbio corretto affermare (ASN 200141752 - RV 220643; ASN 200539454 - 232339) che al fine di accertare se sia stato leso il bene protetto dall’art. 594 c.p., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell’offeso e dell’offensore ed al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata.

Né in senso contrario può esser letta la - pur citata dal ricorrente - sentenza di questa sezione n. 27966 del 23.5.2007 dep. 13.7.2007, ric. Battaglino, non (ancora?) massimata in essa; invero, si dava atto della situazione del tutto particolare nella quale fu pronunziata la frase volgare e offensiva, che si collocava nell’ambito di un vivace scontro verbale durante un dibattito politico, connotato da un clima particolarmente polemico, che aveva dato luogo a scambio di accuse, l’ultima delle quali, di contenuto gratuito e qualunquistico, rivolta all’imputato; costui aveva, in pratico, reagito in maniera rozza a una provocazione altrui.

L’ineliminabilità dei toni accesi e delle espressioni pesanti dal contesto della polemica politica è, d’altronde, costantemente affermata nella giurisprudenza di questa Corte (tra le tante: ASN 199800761 - RV 211480).

Tutto ciò premesso, non è chi non veda come la valenza offensiva della espressione “vaffanculo” per essere esclusa o comunque scriminata con il riconoscimento di una causa di non punibilità, avrebbe dovuto essere inquadrata in un contesto tale da far giungere a conclusione liberatoria in base ai suddetti principi o comunque essere ricostruita come possibile reazione al fatto ingiusto altrui.

Ebbene, il ricorso in esame non reca la benché minima indicazione degli elementi in fatto che avrebbero potuto sostanziare la doglianza poi formulata e consentire a questo giudice della legittimità di valutare la correttezza del ragionamento sotteso alla decisione impugnata.

Non è possibile dunque apprezzare la eventuale illogicità o censurabilità del ragionamento in relazione ad una fattispecie concreta che il giudice del merito abbia mal valutato.

Viceversa, si è in presenza di una motivazione del Tribunale del tutto logica e esaustiva, la quale dà atto di una plausibile interpretazione in senso offensivo della espressione in parola, all’interno di un contesto che ha visto il ricorrente porre in essere una vera e propria aggressione verbale ai danni della persona offesa, intendendo proferire parole capaci di attaccarne ed offenderne l’onore e il decoro piuttosto che porre fine ad una discussione con il ricorso ad una espressione col significato di “non infastidirmi”. Del pari è esclusa la configurazione in concreto di cause di non punibilità.

Inammissibile è anche il motivo di ricorso col quale si lamenta la mancata acquisizione di dichiarazioni decisive di un teste regolarmente ammesso ma non interrogato dal giudice sulle circostanze di interesse per la difesa.

Anche in relazione a tale doglianza si deve dare atto della assoluta genericità del motivo di ricorso non essendo esplicitato quale avrebbe potuto essere il contributo mancato del teste e quale la ragione per cui tale contributo avrebbe dovuto essere ragionevolmente atteso, dovendosi comunque considerare che il teste è stato sottoposto all’esame.

Alla inammissibilità consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese procedurali e al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in 500 euro.

In ragione del criterio della soccombenza deve condannarsi l’imputato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e a versare alla cassa delle ammende la somma di 500 euro, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate in complessivi euro 1050 oltre accessori come per legge.



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